IV DOMENICA DI QUARESIMA
(Gs 5,9a.10-12 – Sal 33 – 2 Cor 5,17-21 – Lc 15,1-3.11-32)
«Rallegrati, Gerusalemme,
e voi tutti che l’amate, riunitevi.
Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza:
saziatevi dell’abbondanza
della vostra consolazione»
(Antifona d’ingresso, cf Is 66,10-11).
Commento
La liturgia di questa IV domenica di Quaresima ci consegna un Vangelo meritatamente celebre, quello del ‘figlio prodigo’ o del ‘padre misericordioso’, brano ricco di spunti, vista anche la sua lunghezza e intensità. Se però guardiamo alle letture che la Chiesa accosta a questa pagina di Vangelo oggi, possiamo provare a tracciare una pista interpretativa che ci aiuti a entrare in esso nel contesto del nostro cammino quaresimale verso la Pasqua.
La prima lettura ci parla della prima Pasqua che gli Israeliti celebrano appena dopo l’ingresso nella terra promessa (cf Gs 5,10). Essa non è ancora possesso di Israele, Giosuè non ha ancora dato inizio alla conquista della terra, ma Dio, quale padre amorevole e generoso, dona già al suo popolo i frutti della terra. Se la Pasqua, come festa agricola, esprime il rendimento di grazie a Dio per le primizie della mietitura, essa può diventare facilmente una festa che ricordi a Israele la benevola Provvidenza del Padre celeste, che nutre i suoi figli, che somministra al suo popolo il necessario per la sua sussistenza (cf Gs 5,11): ora che Israele è entrato nella terra promessa, così come Dio aveva fatto per quarant’anni nel deserto, come ci ricorda la menzione della manna nella pericope del libro di Giosuè (cf Gs 5,12).
Anche il Vangelo ci ha ricordato questa benevola generosità del Padre e lo ha fatto per due volte. In Lc 15,17 è il figlio minore che, rientrato in sé stesso, la richiama alla mente: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza…”. Il figlio minore, avendo chiesto al padre di dargli la parte di patrimonio che gli spettava (cf Lc 15,12), si è volontariamente staccato dalla fonte della grazia, dall’origine di questa abbondanza che era sempre a sua disposizione. Avendo reciso il legame con questa sorgente, però, le sue sostanze, i suoi beni, sono andati rapidamente e progressivamente esaurendosi. Fuori della comunione con il padre non c’è che fame e vuoto (cf Lc 15,16). Una seconda volta è il padre stesso che ricorda, questa volta al figlio maggiore che non vuole entrare al banchetto, come la comunione con lui porti con sé la possibilità di partecipare ad ogni bene: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo…”. Entrambi i fratelli, anche se in modo diverso, vivono nell’oblio di questa verità elementare, hanno dimenticato che cosa significhi stare con il padre in un rapporto di amore: il minore ha spezzato la relazione, pensando di poter vivere in autonomia, in indipendenza dal padre, e ha sperimentato solo il bisogno più estremo. Il maggiore, d’altro canto, non ha mai vissuto con il padre in comunione d’amore, perché si è sempre comportato da servo, piuttosto che da figlio (cf Lc 15,29: “Ecco, io ti servo da tanti anni…”). L’unica possibilità per l’uomo di vivere nella gioia di un rapporto d’amore con il Padre sta nel riuscire a fare memoria dei tanti segni della Provvidenza che egli elargisce a ciascuno di noi: le attenzioni Parola di dio del Padre per noi sono segno di un amore infinito e gratuito, che colma non solo i nostri bisogni fisici, quanto piuttosto il nostro fondamentale bisogno di essere amati. Quando allora la relazione con il Padre celeste si è incrinata a causa della nostra carenza di memoria grata dei suoi benefici, cosa possiamo fare? C’è una speranza di recupero della relazione? La risposta del Vangelo è ovviamente affermativa: appena il figlio minore si riaffaccia all’orizzonte, il padre gli corre incontro, pieno di compassione, e lo bacia, senza dargli neppure il tempo di manifestare il suo pentimento per il male commesso (cf Lc 15,20). E tutto si trasforma in festa, perché colui che “era morto […] è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,24.32).
Lo stesso messaggio ci ha dato Paolo nella seconda lettura, in termini più teologici: Dio “ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, […] non imputando agli uomini le loro colpe…” (2Cor 5,18-19). Esattamente come ha detto Gesù in forma parabolica, così Paolo esprime l’amore di Dio per noi in termini di una infinita compassione che Egli ci ha manifestato rinnovandoci, trasformando la nostra condizione di peccatori, restituendoci la dignità di figli, inaugurando in Cristo Gesù la festa della ricreazione del mondo (cf 2Cor 5,17: “…se uno è in Cristo, è una nuova creatura”!). Tutta la storia della salvezza non è, agli occhi dell’Apostolo, che questo costante richiamo di Dio a lasciarci riconciliare con Lui, a tornare al Suo amore, a recuperare il legame vitale con la fonte della grazia, con la sorgente dell’abbondanza di ogni bene. Ed ora, nel tempo della venuta di Cristo, questo appello di Dio si èfatto
efficace, ha conseguito la sua piena e perfetta realizzazione. Prendendo su di sé il nostro peccato, anzi, divenendo egli stesso peccato in nostro favore (2Cor 5,21), il Figlio unigenito ha permesso che tutti recuperassimo la nostra dignità di figli, tanto se ci fossimo allontanati dal Padre dilapidando il nostro patrimonio di grazia (come il figlio minore della parabola), quanto se fossimo rimasti in casa del Padre, ma vivendo in atteggiamento di servi invece che di figli (come il fratello maggiore della parabola)..
Spunti di riflessione da: Sussidio Quaresima 2019 – Ufficio Liturgico Nazionale – CEI