
Nel IV secolo, Evagrio Pontico, monaco e teologo del deserto, scrisse un’opera fondamentale sugli otto spiriti della malvagità (o “pensieri malvagi”) che assediano l’anima umana. Tra questi, la tristezza occupa un posto centrale, descritta come un veleno che corrode la vita spirituale, un ostacolo alla contemplazione e alla preghiera.
La tristezza come frutto dell’ira e del desiderio insoddisfatto
Evagrio definisce la tristezza come un “abbattimento dell’anima” (n. 1), un male che nasce dall’ira e dal desiderio di vendetta frustrato. Quando il cuore non ottiene ciò che brama – sia esso vendetta, piacere, onore o ricchezza – cade in uno stato di afflizione che lo paralizza. “La tristezza è la bocca del leone e facilmente divora colui che si rattrista” (n. 2). Come un verme che rode il legno, essa consuma l’anima dall’interno (n. 3), generando un dolore persistente che non si placa.
Un ostacolo alla vita spirituale
La tristezza non è solo un’emozione passeggera, ma una catena che imprigiona l’uomo nelle sue passioni (n. 8). Il monaco afflitto da questo male “non conosce la letizia spirituale, come colui che ha una forte febbre non avverte il sapore del miele” (n. 5). La mente rattristata non riesce a elevarsi alla contemplazione, né a pregare con purezza (n. 6). È come avere i piedi legati mentre si tenta di correre (n. 7): ogni slancio verso Dio viene soffocato.
La tristezza come sintomo di una passione nascosta
Evagrio osserva che la tristezza è un segnale rivelatore: “come la malattia si rivela dal colore della carnagione, la presenza di una passione è dimostrata dalla tristezza” (n. 15). Chi si dice libero dalle passioni ma è preda della malinconia è come un malato che finge di essere sano. La tristezza svela ciò a cui siamo ancora attaccati: l’avaro si affligge per le perdite materiali, l’ambizioso per l’onore negato, il lussurioso per il piacere mancato (nn. 17-18).
La via della liberazione: l’apátheia e l’amore per Dio
La soluzione proposta da Evagrio è radicale: “Colui che domina le passioni signoreggerà sulla tristezza” (n. 14). La meta è l’apátheia (l’impassibilità), uno stato di libertà interiore in cui l’anima, purificata dai desideri disordinati, non è più turbata dalle vicende mondane. “Più sicura dello scudo e delle mura è per il monaco l’apátheia” (n. 13).
Ma la vera guarigione dalla tristezza viene dall’amore divino: “Colui che ama il Signore sarà libero dalla tristezza, poiché la pienezza dell’amore scaccia la tristezza” (n. 24). Solo chi disprezza i piaceri effimeri del mondo può gustare una gioia incrollabile (n. 16).
La tristezza “buona”? Una distinzione necessaria
Evagrio riconosce una forma positiva di tristezza: quella “di fronte a Dio” (n. 19), cioè il pentimento che purifica il cuore. Tuttavia, la tristezza per le cose mondane “sminuisce l’intelletto” (n. 20), annebbia la mente (n. 21) e impedisce alla luce divina di illuminare l’anima (n. 22).
Verso una libertà interiore
L’insegnamento di Evagrio Pontico sulla tristezza è un monito per l’uomo contemporaneo, spesso preda di un’afflizione senza nome, generata da desideri insoddisfatti e attaccamenti disperati. La via d’uscita non è la repressione delle emozioni, ma il distacco dalle passioni che le alimentano. Solo chi impara a desiderare ciò che è eterno – l’amore di Dio – potrà dire, con il salmista: “Hai mutato il mio lamento in danza, hai sciolto il mio sacco e mi hai cinto di gioia” (Sal 30,12).
La tristezza, allora, non sarà più una prigione, ma un passaggio verso una gioia più grande.
Nella vita del cristiano oggi, la tristezza, letta attraverso la lente di Evagrio Pontico, può essere attualizzata come una sfida spirituale profondamente legata alla disconnessione da Dio e all’attaccamento alle cose effimere. Evagrio, monaco del IV secolo e maestro della tradizione esicasta, considerava la tristezza (in greco λύπη, lypē) uno degli otto loghismoi (pensieri malvagli) che ostacolano l’anima nel suo cammino verso l’apatheia (libertà dalle passioni) e l’unione con Dio.
1. La tristezza come frutto della perdita delle illusioni
Oggi, il cristiano sperimenta spesso tristezza legata alla delusione verso il mondo: crisi esistenziali, fallimenti relazionali, fragilità della Chiesa istituzionale, o l’impressione che la fede non risponda alle aspettative immediate. Evagrio distingueva tra una tristezza “mondana” (cfr. 2 Cor 7:10), che nasce dall’attaccamento a beni caduchi, e una tristezza “santa”, che spinge al pentimento.
Attualizzazione: La tristezza odierna spesso deriva dall’idolatria del successo, della perfezione o dell’affermazione sociale, che sostituiscono il desiderio di Dio. Il rimedio è la metanoia, un cambiamento di sguardo che trasforma il dolore in occasione di abbandono alla Provvidenza.
2. L’accelerazione digitale e l’acedia
Evagrio associava la tristezza all’acedia (noia spirituale), un torpore dell’anima che rende incapaci di pregare e di trovare gioia nelle cose divine. Oggi, la sovrastimolazione digitale e il multitasking generano una forma moderna di acedia: stanchezza esistenziale, incapacità di silenzio, e una tristezza vaga legata al vuoto di significato.
Attualizzazione: Il cristiano è chiamato a un digiuno digitale, a ritmi di vita più umani, riscoprendo la lectio divina e la preghiera del cuore, come insegnato dall’esicasmo.
3. La tristezza come maschera della solitudine
Evagrio scriveva che la tristezza spesso nasce dall’isolamento dalla comunità monastica. Oggi, molti cristiani soffrono di solitudine esistenziale, aggravata dall’individualismo e dalla frammentazione sociale. La risposta è la koinonia, la comunione fraterna che Evagrio viveva nella Laura del deserto.
Attualizzazione: Piccole comunità, gruppi di ascolto e condivisione autentiche possono essere antidoti alla tristezza, ricordando che “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18:20).
4. La tristezza e la lotta spirituale
Per Evagrio, la tristezza era un’arma del demonio per far dubitare della misericordia di Dio (cfr. De malignis cogitationibus). Oggi, molti cristiani lottano contro la depressione, spesso scambiata per fallimento spirituale.
Attualizzazione: Occorre integrare fede e psicologia, ricordando che la tristezza patologica può richiedere un aiuto professionale, senza colpevolizzazioni. La preghiera di Gesù (“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”) resta un’àncora, come suggeriva Evagrio.
La tristezza, oggi come allora, è un’opportunità per purificare il desiderio e orientarlo verso Dio. Come scriveva Evagrio:
“Se vuoi liberarti dalla tristezza, accogli la pazienza e la magnanimità, e troverai la gioia interiore.” (Praktikos, 11).
Il cristiano del XXI secolo può trasformare la tristezza in un pellegrinaggio interiore, dove il deserto dell’anima diventa spazio di incontro con Colui che dice: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati” (Mt 5,5).
diacono Tonino Maiorana
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